L’Argentato
fango
Era quello il principale ricordo legato alle sue notti di fanciullo. Il morbido tessuto al contatto coi suoi piedi, nudi, e i mattoni di pietra posizionati lì secoli e secoli addietro da qualcuno di più saggio e antico di lui.
Non c’era rumore, in quei ricordi, perché lui era Silenzio, e il silenzio non lasciava traccia.
Vi era solo il freddo della pietra. La morbidezza e il calore del tappeto. La luce soffusa in fondo al corridoio.
Quella luce che, dopo tanto e silenzioso camminare, finalmente raggiungeva, e si rivelava nelle mille stelle e pianeti che si muovevano placide nell’universo che li circondava.
Lì quella strana bolla di sole sensazioni scompariva, e il Silenzio lasciava piano il suo fianco, facendo giungere alle sue orecchie il pigro suono della vita notturna di Asgard, le luci che, testarde, rimanevano a farsi notare nella notte da chi, come lui, poteva sovrastarle dall’enorme terrazza.
Il suo posto era occupato, quella sera. Qualcun altro si era curvato sulla ringhiera, appoggiandoci i gomiti e volgendo lo sguardo verso il basso, i lunghi capelli neri che ricadevano sul volto, nascondendone un poco i lineamenti affilati e sublimi.
Qualcun’alto era giunto lì a piedi nudi, facendo scivolare le sue lunghe dita su quella pietra antica e fredda.
Si avvicinò, appoggiando anche lui i gomiti sulla balausta, posando le iridi smeraldine sulla placida vita che ostinata era decisa a non cedere, neppure in quelle ore tarde e di sonno.
“Me n’ero dimenticato… di tutto il tempo che passavo qui. A osservare il Regno Eterno, dicendomi che un giorno sarebbe stato mio. Che me lo sarei meritato” l’altro aveva un tono triste, malinconico.
“Che, studiando tanto, allenandomi tanto, sarei riuscito a mostrare la mia superiorità. Perché non potevo che esserlo, in confronto a lui, superiore. Insomma, bastava guardarlo per capire la sua inadeguatezza a guidare qualcosa che non fosse un plotone o un manipolo di soldati. Era un guerriero. Non sarebbe mai stato un Re”
Il silenzio che era stato rotto tornò a regnare, mentre i due continuavano a non osservarsi. Infondo, non ve n’era bisogno. Uno sapeva come era stato. L’altro era solo un ricordo tirato fuori da uno scrigno, spolverato, e messo sulla mensola più alta nel soggiorno della sua mente, o di ciò che rimaneva.
“Loki…” bisbigliò quel ricordo, dalle gambe lunghe, i capelli corti, le gote spesso rosse per la vergogna, e un lingua poco affilata e non ancora fornita di un veleno mortale “Quando vengo qui non mi sento superiore. Non vedo quelle formiche piccole e poco importanti…”
Sentì lo sguardo dell’altro posarsi su di lui, stupito, probabilmente, o forse più interdetto.
“Venivo qui dopo una giornata passata ad essere sbeffeggiato per l’essere misero che ero. Lo facevo per ritrovare la mia dignità, per sentirmi Grande… più Grande di qualcun altro, almeno”
“No…” un sospiro… il muoversi placido di un ricordo dimenticato “Non su questa terrazza. Non ancora… questa era abbastanza bassa da permetterti di distinguere i volti, se ti impegnavi e aguzzavi lo sguardo, di sentire qualche parola, se era abbastanza alta da raggiungere le tue orecchie…”
“Quindi questa…”
“Questa è la tua terrazza del prima… prima che la vergogna e il risentimento ti facessero diventare cieco e sordo a… questo!” spalancò le braccia, tornando retto e osservando con orgoglio quella città che vibrava, forte e melodica, addormentata, vecchia a bambina, sotto di se.
“La bellezza! Era per questo che venivi qui… per pulire il lerciume che ti buttavano addosso, che ti oscurava la vista, con quel po’ di bellezza pura che ti arrivava da qui, in questo luogo abbastanza alto da riuscire a vederla tutta, e abbastanza basso da riuscire a sfiorarla e a sciacquarti con essa”
E dopo quel fiume di parole, una più forte e vera dell’altro, riabbassò le braccia, girando su se stesso e alzando lo sguardo sulla torre del palazzo. Eccole lì, quelle mille terrazze, una più alta e maestosa dell’altra.
Quando era fanciullo aveva alzato lo sguardo, e, lassù in cima, aveva visto la sua meta. Quell’imponente figura, quel Re saggio e giusto, che raramente riusciva a raggiungere, anche solo per sfiorargli la veste con le punta delle piccole dita.
“Già… e per lui… per lui ho lasciato questo posto. Mi sono lanciato verso l’alto, senza guardare cosa mi lasciavo indietro…”
“Non sei sempre stato questo”
“Ma non potevo non diventarlo”
“Hai lasciato questo…”
“Pe lui”
“E poi la luce quando sei riuscito a toglierti il fango dagli occhi…”
“Ciò che visto…”
“Però ci ha voluto bene. Lo abbiamo fatto innamorare di noi”
“La luce di Thor offuscava la nostra…”
“Ma la vedeva. Gli piaceva!”
“La accettava. Per il bene di Asgard. Per il bene del regno. Con quell’unico occhio che gli era rimasto… quando ci guardava non vedeva noi. Vedeva solo il Futuro. Non guardava nello stesso modo Thor… quando guardava lui… non vedeva il Futuro, vedeva un figlio”
“Thor…”
“Tanto sciocco… tanto orgoglioso…”
“Lui con la sua ingenua cattiveria ci ha aiutati a essere così”
“Con gli sguardi di scherno che ci elemosinava”
“Chi eravamo, noi, per lui?”
“Il peso”
“Il fratello da proteggere”
“La vergogna per ciò che non eravamo”
“Gli unici a cui era permesso di vedere chi fosse realmente”
“L’ho amato. Lo odio…”
“Lo ami o lo odi?” Loki si ritrovò a puntare i propri occhi in quelli del Ricordo, tanto verdi, tanto giovani e intatti. Brillavano, quasi, mentre i suoi erano opachi e consumati, da ciò che si era visto subire, e da ciò che aveva visto compiere.
“Non lo so…” ammise. Perché il Dio degli inganni poteva ingannare chiunque, tranne se stesso “ Spesso sono la stessa cosa…”
Il giovane se tornò a osservare la volta celeste, per poi alzare piano un braccio, e indicargli le stelle “Non volevo essere come loro?” domandò, mentre Loki seguì il braccio e si ritrovò ad osservare quella trapunta trafitta e bucata.
Bellissime
Essenziali
Presenti
Amate
Il Dorato
mantello
Il silenzio della carta, il pungere dell’ignoranza.
Era quello il più segreto ricordo legato alle quelle rari notti di fanciullo, a quelle notte nascoste a tutti sennonché a quelle mura, a quei libri che lo circondavano, altissimi, elevati, irraggiungibili. Per le sue piccole mani e per quelle gambe non ancora muscolose, ma già forti.
Ci aveva provato tante volte, e in tutte si era ritrovato a dover portare le piante dei piedi a terra, le mani vuote attorno ai fianchi.
Si lasciò scivolate tra quegli infiniti corridoi, stretti, larghi, semplici anfratti o infinite strade, in quelle mura fatte di copertine, senza azzardassi a sfiorarle neppure con una spalla, finché non raggiunse la sua meta; quel tavolino sgombro di tutto se non da un grosso e dorato orologio, quelle due sedie, e quella luce tenue che lo aveva guidato fin lì, in quel luogo che, dopo una grande giornata, con gradi vittorie e grandi risate, lo lasciava inaspettatamente vuoto.
Il suo posto era occupato, quella sera. Qualcun altro si era seduto sulla sua sedia, le gambe larghe per comodità e lo sguardo puntato verso l’alto, verso quella torre di libri che puntava in su, sempre più su, quasi volesse raggiungere il cielo, sfondarlo e andare ancora oltre.
Qualcun altro era scivolato tra quei corridoi, attento a non sfiorarne le mobili pareti neppure per sbaglio.
Si avvicinò, lasciandosi cadere con la sua poca grazia sulla sedia rimasta libera, divaricando anch’esso le gambe, e appoggiando pigramente la schiena allo schienale. La testa cadde all’indietro, gli occhi azzurri puntati verso le cime di quelle librerie.
“Me n’ero dimenticato… dei rari momenti in cui mi trascinavo qui. A osservare questi presuntuosi libri che, con tutti il loro sapere, mi sovrastavano, ridendo di me, del mio poco sapere e della mia nulla voglia di conoscenza nel loro ambito” l’atro aveva un tono triste, malinconico.
“Di come mi sembrava ridessero di me, sminuendomi e additandomi, come mia unica pecca. Io, che ero il più amato, il più rispettato, il più forte… loro erano i miei unici nemici concreti. Gli unici che non riuscivo a sconfiggere…”
I libri tornarono ad essere gli unici oratori, con le loro parole fatte di silenzio ed inchiostro, le loro storie e i loro contenuti. Nessuno dei due abbassò lo sguardo. Infondo, non ve n’era bisogno. Uno sapeva come era stato. L’altro era solo un ricordo tirato fuori da uno scrigno, spolverato, e messo sulla mensola più alta nel soggiorno della sua mente, o di ciò che rimaneva.
“Thor” esordì forte quel Ricordo dai capelli lunghi e intrecciati, quegli occhi puliti e le gote che spesso arrossivano dall’orgoglio di se stesso “Quando vengo qui non mi sento sbeffeggiato. Non vedo questi libri irrisori e nemici…”
Sentì lo sguardo dell’altro posarsi su di lui, stupito, probabilmente, o forse più interdetto.
“Venivo qui dopo una giornata passata a sorbire complimenti, sfide e complimenti ancora. Perché, per quanto non ne avessi mai abbastanza, di tutto ciò, a volte, raramente, mi sentivo pesante. Pesante, e imbattibile. Venivo qui per trovare nuovi nemici, che sapevo avrei prevalso con difficoltà. Dovevano essere uno stimolo, a divenire Migliore…”
“No…” un sospiro… il muoversi placido di un ricordo dimenticato “Non tra questi libri. Non ancora, almeno… non subito. Venivi qui per il contrario, per sentirti piccolo. Quando le tue spalle non erano ancora abbastanza larghe e possenti per portare tutto ciò che il tuo nome portava. I doveri, le aspettative altrui, tue e di chi ti voleva bene”
“Quindi questa…”
“Questa è la tua biblioteca del prima… prima che la vanagloria e la vanità ti facessero diventare cieco e sordo a… questo!” spalancò le braccia, tornando retto e osservando con orgoglio quei libri che osservavano, ora, silenziosi e non più accusatori, saggi, vecchi a bambini, sopra di se.
“La Sapienza! Era per questo che venivi qui… per levarti quel mantello fatto di doveri che ti buttavano addosso, che ti oscurava la vista, con quel po’ di sapere pura che ti arrivava da qui, in questo luogo abbastanza basso da riuscire a vederla tutta, e abbastanza vicino da riuscire a sfiorarla e a sciacquarti con essa”
E dopo quel fiume di parole, una più forte e vera dell’altro, riabbassò le braccia, il naso di nuovo all’aria. Eccoli lì, quelle mille pagine, una più piena e infinita dell’altra.
Quando era fanciullo aveva alzato lo sguardo, e, lassù in cima, aveva visto qualcosa di irraggiungibile, al di fuori della spada, del sudore e del sangue. E li, quell’imponente figura, quel Re saggio e giusto, che solo in un ambito riusciva a eguagliare, e sapeva bene che ciò che sfiorava con quelle piccole dita non era il Tutto.
“Già… e per lui… per lui ho lasciato questo posto. L’ho dimenticato, perché avevo cose più importanti, più urgenti da fare, e lo feci senza guardare cosa mi lasciavo indietro…”
“Non sei sempre stato questo”
“Ma non potevo non diventarlo”
“Hai lasciato questo…”
“Pe lui”
“E poi il buio quando sei riuscito a toglierti il mantello dagli occhi…”
“Ciò che visto…”
“Però ci ha voluto bene. Non poteva non innamorarsi di noi”
“La luce del mio titolo offuscava la nostra luce…”
“Ma la vedeva. Gli piaceva!”
“La accettava. Per il bene di Asgard. Per il bene del regno. Con quell’unico occhio che gli era rimasto… quando ci guardava non vedeva il futuro. Vedeva solo il nostro titolo. Non guardava nello stesso modo Loki… quando guardava lui… non vedeva un figlio, vedeva il Futuro”
“Loki…”
“Tanto furbo… tanto orgoglioso…”
“Lui con la sua indotta cattiveria ci ha aiutati a essere così”
“Con gli sguardi di invidia con cui ci ricopriva”
“Chi eravamo, noi, per lui?”
“L’osacolo”
“Il fratello da distruggere”
“L’invidia per ciò che eravamo”
“Gli unici a cui era permesso di vedere chi fosse realmente”
“L’ho odiato. Lo amo…”
“Lo ami o lo odi?” Thor si ritrovò a puntare i propri occhi in quelli del Ricordo, tanto blu, tanto giovani e intatti. Brillavano, quasi, mentre i suoi erano sporchi e lerci, da ciò che si era visto compiere, e da ciò che aveva visto subire.
“Non lo so…” ammise. Perché il Dio del Tuono non poteva che essere che limpido. Accecante, certo, ma nulla di più, nulla di meno di ciò che si riusciva a vedere “ Spesso sono la stessa cosa…”
Il giovane se tornò a osservare la volta celeste, per poi alzare piano un braccio, e indicargli i libri “Non volevo essere come loro?” domandò, mentre Thor seguì il braccio e si ritrovò ad osservare soffitto di pagine, che un tempo era stato Foresta.
Bellissimi
Essenziali
Presenti
Amati
Il Guercio
sangue
Era quello il principale ricordo legato a quella notte di re. L’aria nemica che fendeva la sua pelle, le ferite, nude e aperte, e quei versi quasi animali che nascevano e morivano nello stesso istante, fiori rari e preziosi, che si sperava di non udire mai.
Non c’era colore, in quei ricordi, se non il rosso del sangue e blu che lo ricopriva.
Vi erano solo il freddo del vento. Il Rosso e il Blu del sangue suo, dei suoi nemici e dei suoi amici. E la luce soffusa in fondo alla scalinata del Tempio.
Quella luce che, dopo tanto distruttivo e faticoso camminare, disgraziatamente raggiungeva, e si rivelava nelle ghiacciate fiamme azzurre che si muovevano placide nello spazio in cui erano confinate.
Lì quella strana bolla di sole sensazioni scompariva, e le urla lasciavano piano il suo fianco, facendo giungere ai suoi occhi altro, oltre al rosso ed al blu. Il ghiaccio di quelle maestose pareti, gli ingegnosi ed elaborati intarsi che adornavano quel luogo sacro. E l’altare.
Il suo posto era occupato, quella sera. Qualcun altro aveva, prima di lui, salito tutti quei gradini, scivolato grosso e sgraziato verso il centro di quell’enorme sala circolare, trovandosi e chinandosi su quell’altare che prometteva un sacrificio più che sacro e più che terribile.
Qualcun’alto era giunto lì sporco di Guerra, trascinandosi su, gradino per gradino.
Si avvicinò, posando l’unico occhio che gli era rimasto su quel fagotto disperato e urlante, su quella vita che ostinata era decisa a non cedere, neppure in quelle ore fredde e terribili, in cui anche lui si era ritrovato a domandarsi se vi era ancora qualcosa che degnasse un suo altro passo, un suo altro battito.
“Come potrei dimenticarmene… di questo sventurato incontro tessuto nel destino. Come sarebbero state più semplici le cose, se non fosse mia avvenuto” l’altro aveva un tono triste, malinconico.
“Mi stupii quando le mie mani, così sporche del suo stesso sangue, riuscirono a sfiorarlo. Mi aspettavo che scoppiasse in centinaia di frammenti di ghiaccio da un momento all’altro, percependo quanti ne avessi distrutti in quel modo… Non so perché, ma per quanto mi aspettassi ciò, ero anche desideroso di pulirmi… Tutto il resto arrivò dopo, mentre osservavo quella pelle mutare. Quell’essere che, come me, come Thor, era nato per essere Re, ma che non lo sarebbe mai divenuto”
Il silenzio che era stato rotto tornò a regnare, mentre i due continuavano a non osservarsi. Infondo, non ve n’era bisogno. Uno sapeva come era stato. L’altro era solo un ricordo tirato fuori da uno scrigno, spolverato, e messo sulla mensola più alta nel soggiorno della sua mente, o di ciò che rimaneva.
“Odino…” bisbigliò quel ricordo, dalle vesti lacerate, l’armatura spaccata, già privo della luce di uno dei suoi occhi, e la battaglia ancora dentro e addosso “Quando venni qui non mi aspettavo di trovare qualcosa, ma ciò che trovai… non era solo per me. Era di tutti. Quando lo vidi per la prima volta, così piccolo. Così puro. Semplicemente non potevo lasciare che quella piccola gemma andasse perduta come tante altre”
Sentì lo sguardo dell’altro posarsi su di lui, calmo e saggio.
“Venni qui per ferire ancora di più gli Jotun, non ancora sazio del loro sangue azzurro, e vi trovai invece la pace, la fine. La soluzioni a secoli e secoli di guerriglie, morte e distruzione. La fine di quella stupida ma comprensibile ambizione, che nonostante tutto non potevo accettare, e che mi portò via il mio Occhio migliore, il mio Tempo, la mia voglia di Sangue”
“No…” un sospiro… il muoversi placido di un ricordo dimenticato “In tutta quella morte, in mezzo, in bella vista, la Vita. Piccola e appena nata. Ma pur sempre Viva. E lo capii. Che se vi era una ragione per andare avanti era solo per quello. Per la Vita. Mia e degli altri. Non importava se lo meritassero o meno. C’è chi adora la Morte, nell’universo. Io mi consacrai alla Vita”
“Quindi questo fu…”
“Questa fu il prima… prima che quella piccola vita mutasse in qualcosa di velenoso e autodistruttivo, a causa tua, del tuo necessitare solo del meglio, e di chi ti circondava prendendo te ad esempio, prima che tutto ciò ti facesse diventare cieco e sordo a… questo!” indicò quel piccolo essere che per se stesso lottava, ergendosi ancora più maestoso, ignorando la fatica, la paura e il sangue sulle sue spalle e osservando con paura quasi quella piccola creatura ancora pura, ma già abbandonata.
“Il sangue! Fu per questo che venni qui… per versarne scioccamente ancora in onore di linfa vitale andata già perduta, per pulire. Ma pulire come? Come può il sangue pulire altro sangue? Come? Come?”
E dopo quel fiume di parole, una più forte e vera dell’altro, riabbassò le braccia. Il Ricordo si allontanò, muovendosi piano verso l’enorme apertura del tempio, che dava su quella Jhotunem ormai devastata, che piangeva e richiamava i suoi figli perduti. La battaglia era finita, e tra lo scintillare del ghiaccio sotto la luce delle stelle vi si trovava anche il brillare di centinaia e centinaia di elmi, scudi e spade di origine aesir.
Sotto quelle lune piangenti, il ghiaccio, era anche rosso.
“Già… e per loro… per loro ho cominciato questa guerra. Mi sono lanciato verso il nemico, senza guardare cosa mi lasciavo indietro, e soprattutto cosa mi sarei ritrovato davanti…”
“Non sei sempre stato questo”
“Ma non potevo non diventarlo”
“Hai fatto questo…”
“Pe loro. Per il nostro futuro”
“E poi la luce troppo forte per il tuo unico occhi rimasto, quando sei riuscito a toglierti il sangue dagli occhi…”
“Ciò che visto…”
“Però ci hanno voluto bene. Forse troppo”
“I nostri piccoli orgogli. E la nostra vergogna, anche”
“Non siamo stati buoni padri”
“Ma siamo stati buoni Re. Per il bene di Asgard. Per il bene del regno. Con quell’unico occhio che ci è rimasto… potevamo vedere solo oltre. Vedere solo il Futuro”
“La nostra più grande pecca è stata non vedere quei due Pilastri nello stesso modo…”
“Thor…”
“Tanto sciocco… tanto orgoglioso… Troppo nostro figlio, nostra copia troppo fedele”
“Lui con la sua ingenua cattiveria che non abbiamo fatto altro che nutrire”
“Chi eravamo, noi, per lui?”
“Il Padre”
“Il Re”
“Colui da eguagliare”
“Colui da superare”
“Loki…”
“Tanto furbo… tanto orgoglioso… Troppo figlio di guerra e sangue, troppo distante, così distante da poter essere distinto solo come Futuro”
“Lui con la sua anima già fragile e ferita che non abbiamo fatto altro che continuare stracciare”
“Chi eravamo, noi, per lui?”
“Il Padre”
“Il Re”
“Colui da eguagliare”
“Colui da rendere orgoglioso”
“Li ho amato come si possono amare i figli. Li odio come si può odiare chi sbaglia…”
“Li ami o li odi?” Odino si ritrovò a puntare i propri occhi in quelli del Ricordo, tanto verdi, tanto giovani e intatti. Brillavano, quasi, mentre i suoi erano opachi e consumati, da ciò che si era visto subire, e da ciò che aveva visto compiere.
“Non lo so…” ammise. E non era facile, per quel dio così forte e complesso, famoso e conosciuto per la sua sapienza e saggezza, ammetter una cosa come quella “ Spesso sono la stessa cosa…”
Il più giovane se tornò a osservare la volta celeste, per poi alzare piano un braccio, e indicargli le stelle “Non volevo essere come loro?” domandò, mentre Odino seguì il braccio e si ritrovò ad osservare quella trapunta trafitta e bucata.
CREDITS
Come al solito si ringrazia L_aura_grey per aver creato questa fanfiction sul mondo di Thor che mi è piaciuta molto quindi ho deciso di pubblicarla anche sul mio blog e presto tra le mille cose che sto facendo, oltre a giocare a Gran Turismo 6, ci sarà anche una nuova fanfiction che sto scrivendo.
La sezione cresce e ne vado molto orgoglioso quindi se vi piacciono queste storie condividetele sui socialcosi e fatele leggere agli amici, inwsomma diffondete anche voi il verbo.
Commenti
Posta un commento